Egli era una di quelle, ombra fluida che scorreva nell’oscurità, anima in movimento priva di requie. Penetrò il grembo disfatto del castello senza che nessun occhio riuscisse a coglierlo, spasmo repentino delle tenebre rapprese. S’immerse fra le antiche pietre intrise di decadenza e dannazione. Un maniero abbandonato a troppi anni di iettata sorte. Putrida carogna pervicacemente aggrappata al ciglio di una miserabile esistenza, le squallide vestigia di quel che era stato in origine e che immantinente aveva iniziato a corrompersi. Nel tempo del Crepuscolo, un mausoleo di luce defunta.
Sale di pietra nera, crudo basalto disseminato
di crepe che racchiudeva le interiora incancrenite del castello. Propaggini
spinose dalle finestre sfondate, cumuli di roccia e immondizia, isole di
rifiuti attorno a cui galleggiavano come relitti scampoli di mobilio
sopravvissuti alla rovina. Pietra corrosa e legno marcescente, l’ossatura intaccata
della dimora atavica dei conti di Montreuil. Ovunque, amalgamato alle tenebre e
ai viticci di viscida foschia che s’insinuavano dall’esterno, gravava il lezzo
rancido della morte.
Egli non era interessato allo sfacelo delle
sale o al fetore delle tenebre. I suoi cinque sensi erano tesi a individuare
ogni minima avvisaglia lungo il percorso. Adempivano un compito cruciale,
sussidiario tuttavia a quello del senso ulteriore che lo spingeva a ricercare
come freccia puntata verso l’obiettivo.
Risalì il maschio, torrione massiccio provvisto
di stanze disparate a ogni piano. Percorse una sala da pranzo dotata di un
immenso camino ancora tiepido di un fuoco da poco estinto. Le travature di
quercia del soffitto apparivano ancora solide malgrado la muffa e i drappeggi
di ragnatele. Le assi del pavimento cedettero lievemente al suo passaggio
discreto, foderate da una profusione di tappeti muffiti. Un desco incrostato di
sporcizia, delle sedie con l’imbottitura esplosa, una singola finestra dalle
imposte sbarrate incastrata in una strombatura profonda del muro. Era buio là
dentro, ma egli riusciva lo stesso a vedere. Quando si è ombra più densa di
quelle che ti circondano, persino la tenebra può apparire luminosa. Avanzò fra
il tavolo e le sedie, scavalcò le suppellettili ammucchiate sui tappeti. Le
pareti della sala da pranzo erano addobbate di vessilli tarlati, pronti
all’apparenza a sbriciolarsi al solo essere sfiorati. C’erano anche delle tele
con le cornici opacizzate da troppi strati di polvere sedimentata. I dipinti
raffiguravano i membri della dinastia dei Montreuil che si erano avvicendati a
governare sul Lago dei Lamenti. Facce austere, ottenebrate dal tempo e da una
comune espressione di tormento interiore. Parevano costernati i Montreuil, osservavano
le ombre grevi della sala dalla scorza annerita della tela con il medesimo
sguardo conturbato del loro capostipite nell’affresco del cortile.
Egli registrò a margine le espressioni
contrite dei dipinti. Annotò la comunanza dei lineamenti sottili e scavati, il
portamento algido immortalato dagli artisti, l’ombra inquietante della
disgrazia negli occhi di ciascuno di loro. Assorbì i particolari mentre passava
oltre, senza rallentare il passo. Le memorie defunte di quella famiglia non gli
interessavano. Egli cercava la discendenza ancora in vita, l’ultimo erede della
sciagura.
Raggiunse il quarto piano del maschio
senza incontrare nessuno. Un tuono rotolò nel cielo. La pioggia picchettava
all’esterno. Il torrione aveva un
quinto e ultimo piano. Esisteva anche una porta però, un pannello scrostato che
in un tempo lontano qualcuno aveva verniciato di lacca nera. Aperto su una
voragine animata da un lucore grigiastro. Egli aveva visto la torre
secondaria che spuntava appollaiata sul versante settentrionale del maschio,
come un nano sulle spalle di un gigante. Il pannello dischiuso era un invito ad
andare. Egli staccò le spalle dal muro, la mano sinistra sull'elsa della
spada, e andò.
Un cartiglio di marmo butterato sovrastava
la soglia. Versi funerei, già incontrati nella corte all’esterno:
La
fiata che lo rampollo dalli capelli d’argento e l’occhi d’ametista
ietterà
lo sguardo sullo mondo,
la
sorte funesta faria ritorno a ghermir le anime della schiatta alata.
Allor
la larenzia vedrà perir in cenere le sue ali
e
disperazione verserà sul figliolo maledetto.
Egli si soffermò a leggerli ancora. Udì
il mugghio della marea del Destino che s’apprestava a montare. Distante, in
rapido avvicinamento.
Un volo frusciante che colma la mente, recitò
fra sé, disegno di lutto e dannazione.
Il bagliore grigio pulsava oltre il
pannello spalancato. Egli varcò l’ingresso senza fretta per immergersi nella
sua anima cinerina. Si ritrovò nella torre abbarbicata al maschio. Un cilindro
cavo privo di piani. Una spirale di gradini smussati s’attorcigliava come una
serpe di pietra a ridosso delle pareti. Saliva fino al soffitto a cassettoni venti
metri sulla sua testa. Gli scalini erano ripidi, sprovvisti di ringhiera,
livellati a intervalli regolari da un pianerottolo affacciato sul vuoto. Una
lumiera di ferro corroso, carica di moccoli di cera liquefatta, pendeva dal
soffitto. Il balenio di cento fiammelle colava per la tromba delle scale. Si
rifletteva lubrico lungo tutta la cavità della torre, amplificata dalla sua
superficie perfettamente levigata: una miriade di specchi privi di telaio
tappezzava infatti ogni palmo delle pareti, decine e decine di placche molate e
incastrate a comporre un mosaico plumbeo. La luce riverberava ondivaga,
sensibile al sussulto di ogni singola candela.
Egli sbirciò il proprio riflesso distorto
dalla convessità degli specchi. Ombra sfocata dai contorni imprecisi. Attorno e
sopra di lui, altre ombre intrappolate nelle profondità di altrettanti specchi.
Imitavano ogni sua mossa, danzavano in cerchio al suo incedere accorto. Un
rumore di sottofondo lottava per non affogare nel tramestio della pioggia sul
tetto. Un suono lieve, come un battito leggero oppure un fruscio. Dilatato, in
alto sulla sua testa.
Il presagio di Aria, avvertì. Quale
che sia, è prossimo ad accadere.
Un altro rumore, più brusco e localizzato,
ancora sopra di lui. Lo strusciare di un passo, il tintinnio dell’acciaio. Il
sussurro della lama che esce dal fodero. Egli alzò gli occhi sulla figura
comparsa dalla porticina all’estremità dell’ultimo pianerottolo.
Lord Lestat, Comte de Montreuil."
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