Stese il suo
rigido mantello sui tetti dell’orgogliosa Kaisersburg, strinse nel gelido
abbraccio gli stendardi vermigli sulle mura di Volturnia. Passò, ombra diafana
di pioggia e tempesta, a soffiare il suo spirito contro i bastioni dell’austera
Gavanin, tra i vicoli tetri dei suoi quartieri militari. Cavalcò, su frangenti
di nuvole e vento, sulle cupole e sui pinnacoli dorati di Jemi la Splendida,
fischiò sul mare schiumante oltre i suoi lidi frastagliati, sino a raggiungere
i pontili fatiscenti e le strade ricche di miseria della decadente Saëgata.
Calò,
sudario impalpabile di caligine e brina, sulle guglie sempreverdi di Ebor.
Discese tra le case di Lum, lacerando col suo staffile di vento il velo esangue
sul suo volto di pietra. Proseguì al di là dei crinali innevati della
Cordigliera, invase le contrade tristi e desolate di Altea, s’insinuò tra le
spoglie sbriciolate dalle epoche della malinconica Amor, tra i canali luridi e
melmosi della moribonda Veron.
Venne dal
nord, porgendo il suo immutato saluto, la sua eterna sembianza, sfiorando le
terre del continente con una carezza da sempre nota.
Nelle
campagne, i contadini rabbrividivano avvolti nei mantelli di lana, rimpiangendo
gli ultimi dolci mesi d’autunno. Sulla soglia delle proprie abitazioni,
osservavano il cielo terso ricoprirsi di nubi gravide e rievocavano le
settimane recenti, la vendemmia e la semina dei campi ora placcati di brina. La
legna già era stata raccolta e attendeva le fiamme del camino accatastata in
cantina o nei granai. I maiali ormai grassi razzolavano pigri e beati nei
recinti, sazi delle ghiande ingurgitate con foga nei giorni passati, ignari dei
festeggiamenti per i quali erano stati preparati: tra breve sarebbero stati
appesi a un palo per le zampe posteriori, la loro gola sarebbe stata
squarciata, il loro sangue raccolto e le loro carni arrostite. I fattori
fissavano rapiti la magia del loro fiato fumigante nell’aria rigida del
crepuscolo. Riflettevano sui lunghi giorni che avrebbero trascorso seduti
dinanzi al focolare, a scrutare tra le braci il destino che li avrebbe spinti,
in primavera, a tornare ai campi con le zappe in mano. Non l’ignoranza, né la
prosaica attitudine che gli era tipica di concedere poco spazio ai sentimenti,
impediva ai loro cuori di fremere d’un fugace palpito di nostalgia nel
rammentare i raggi tiepidi dell’ultimo sole d’autunno che pochi giorni prima
aveva benedetto, rosso e dorato, i volti dei loro figli.
Nelle città,
all’interno delle mura incoronate di merli, la vita si protraeva monotona.
L’inverno avrebbe ridotto l’afflusso dei pellegrini accrescendo
l’impraticabilità delle vie di comunicazione. Molti meno viandanti sarebbero
giunti a bussare ai portali col loro bagaglio di bisacce e di storie da
taverna. I gendarmi avrebbero trascorso interminabili ore di noia e freddo a
battere i denti nella logorante attesa del cambio della guardia. Nelle
abitazioni, nelle botteghe, in mezzo ai tavoli delle osterie, la gente si
sarebbe stretta in un abbraccio reciproco, all’inconscia ricerca di una fonte
d’umano calore. Avrebbe fronteggiato pioggia e vento, lavorando alacremente e
chiacchierando e raccontando storie di banale realtà e assurda fantasia, le
mani intirizzite nei guanti e gli occhi smarriti nella vampa dei camini. In
qualsiasi stagione, le città restavano sorgenti e amplificatori di vicende,
fulcro di raccolta e smistamento di notizie. Una girandola di voci si
rincorreva per le strade, sebbene la maggior parte di esse altro non fosse che
il coro insistito e variegato dell’unica Voce: quella che volava di bocca in
bocca tra i banchi del mercato, in mezzo ai vicoli e ai pontili, da un tavolo
all’altro delle taverne, in ogni angolo - fosse splendido e sontuoso oppure buio
e inzaccherato - delle città.
Guerra.
Le truppe
radunate alla base dei torrioni e nei distretti militari, mercenari stranieri e
soldati con le insegne dei Principati: ormai tutti avevano visto le schiere
accampate fuori dalle città o in marcia per le campagne. Quella che fino a
poche settimane prima era sembrata una delle tante dicerie in volo per le
strade si era rivelata in tutta la sua concretezza. A occidente, oltre
l’oceano, in terre di cui pochi sapevano davvero qualcosa, se non certi eruditi
oppure gli abitanti della costa che avevano conosciuto mercanti e viaggiatori
giunti dall’altra sponda del mare, a ovest si combatteva un conflitto
sanguinoso. E i Principati si preparavano a intervenire. Dopo aver adunato
parte dei contingenti regolari nei maggiori porti marittimi, avevano divulgato
numerosi bandi di reclutamento per accrescerne i ranghi. In molti si erano
arruolati, barbari dagli occhi grigi venuti dal nord, Alteani dalla pelle
abbronzata e i capelli mori, assieme a una congerie di umanità della più
disparata specie per lo più insoddisfatta della vita, alla ricerca di
avventura, di guadagno, di un senso autentico e disperato per la propria
esistenza; briganti e galeotti, in alcuni casi tutt’altro che infrequenti,
braccati dalle autorità, bramosi di libertà e di chissà quali vagheggiati
bottini.
Affacciati
alle finestre luminose dei loro opulenti palazzi, i nobili osservavano con
distacco l’animosità febbrile che contagiava gli spiriti della plebe raccolta
promiscuamente tra i rioni impestati di tanfo e rumore. Carezzati dal tocco
soffice della seta e dello sciamito, vegliavano con pigra indifferenza sulle
sorti misere del popolo, invidiando tuttavia nel nucleo recondito del proprio
cuore il colore e l’incredibile gamma di sfumature di cui l’esistenza stentata
di quegli uomini riusciva comunque a dare sfoggio. Attraversavano corridoi
nell’eco solitario dei loro passi, camminavano annoiati sotto loggiati deserti,
intorno a giardini attanagliati dal gelo. Si interrogavano distrattamente
sull’insoddisfazione del proprio cuore, del proprio spirito ingabbiato nell’oro
e nello sfarzo, incapaci ormai d’animarsi di pulsioni improvvise se non in
momenti sempre più rari e preziosi. Ma si trattava di riflessioni fugaci:
presto la mente ritrovava morale e si concentrava sul pensiero del prossimo
banchetto, della prossima notte di lussuria in compagnia di una nuova
cortigiana dalle giovani forme. Guardavano il cielo gonfio di vento e
meditavano sull’avvento della prossima primavera, allorché avrebbero potuto cavalcare
tra i boschi con il proprio seguito di cavalieri e scudieri, con la muta di
segugi affamati attorno e il falcone incappucciato sul braccio, a caccia di
volpi, cervi e cinghiali. Allora tornavano a sorridere, dimentichi di ogni cupa
riflessione.
L’inverno
recava la fine dell’anno e con essa un periodo di fervore religioso. Era questo
il tempo delle investiture per gli adepti di Volkos, l’ardimentoso Dio della
Guerra. All’interno delle ombrose navate delle sue cattedrali fortificate,
intrise dell’aroma dell’incenso e del sapore dell’acciaio, i novizi dell’ordine
di monaci guerrieri recitavano genuflessi i cori delle litanie d’iniziazione.
Porgevano le proprie spade e i propri scudi ai piedi degli altari di ferro,
pregando il dio affinché li benedicesse. Col capo prostrato dall’emozione e dal
rispetto, lasciavano che i confratelli superiori tracciassero il venerabile
simbolo della spada sulle loro spalle. Allora erano infine pronti a vestire il
mantello cremisi, icona secolare del sangue eroico e battagliero di Volkos, che
li avrebbe accompagnati in combattimento fugando ogni sentimento di codardia
dai loro cuori.
Nelle
campagne e nei villaggi lontani dalle città, i chierici verde vestiti di Fenice
portavano la benedizione dell’Albero Sacro tra le genti. Esortavano i fedeli a
celebrare i riti e i sacrifici prescritti per beneaugurarsi il sorriso radioso
della dea in vista del nuovo anno. Intere comunità si univano a loro per
pregare Fenice sul greto dei ruscelli e sulla cima dei poggi battuti dal vento
o inzuppati dalla pioggia. Poiché anche l’inverno, catechizzavano i chierici,
era figlio della Grande Madre e fratello delle altre stagioni. Al calar del
sole, alti falò punteggiavano le piazze dei borghi e i cortili delle fattorie.
La gente vi si raccoglieva intorno gettando tra le fiamme la sterpaglia e le
erbacce sradicate dai campi e dagli orti. Le osservavano accartocciarsi tra le
vampe; levavano una preghiera alla Grande Madre affinché un giorno quello che
l’inverno aveva fatto tacere potesse risorgere a nuova vita. I duri mesi a
venire avrebbero offerto tempo per i salmi e le riflessioni nell’attesa del
momento in cui Fenice sarebbe discesa ancora tra gli uomini sotto braccio alla
primavera, per celebrarne il nuovo sposalizio con la terra.
Nelle Città
Stato dei Principati avevano inizio i laboriosi addobbi dei templi di Yor, il
Grande Fratello e Signore di tutti gli dèi, assiso sul Suo trono di fuoco tra
le stelle del cielo. L’ultimo giorno dell’anno, il trentunesimo del dodicesimo
mese, il Sommo Sacerdote in persona avrebbe aperto i portali del maestoso
tempio a Kaisersburg, mentre i devoti patriarchi dell’Ordine lo avrebbero
imitato a Volturnia, Gavanin, Jemi, Saëgata e Lum. Sopra un carro adorno di
velluto e oro, avrebbe attraversato la città, conducendo tra le case l’emblema
sacro del Disco Solare. Accompagnato dai chierici dalla candida tonaca e dai
cavalieri devoti vestiti a cerimonia, avrebbe guidato la processione nei
quartieri di Kaisersburg per invocare la grazia del dio sulle genti festanti.
Il principe con tutta la corte lo avrebbe seguito scortato dalla guardia
personale e presto il corteo si sarebbe ingrossato, mano a mano che i cittadini
si fossero accodati per intonare i salmi tradizionali. Per tre volte avrebbero
percorso il perimetro esterno delle mura, fino a quando, al tramonto, il Sommo
Sacerdote non avesse ricondotto i fedeli al tempio per pronunciare la
benedizione formale. Quando il sole fosse calato oltre il mare, sarebbero
cominciati i festeggiamenti. Si sarebbero protratti per i quattro giorni
seguenti, con giochi, tornei, spettacoli e banchetti sulle piazze e fuori le
mura.
Nei pressi
dei cimiteri le campane delle chiese di Moors battevano il loro sordo rintocco,
unica voce nei templi lugubri e silenziosi. Il sopraggiungere dell’inverno e la
fine dell’anno non venivano in alcun modo celebrati dai chierici rasati del Dio
della Morte: autunno o inverno, estate o primavera, l’Eterno Mietitore sempre
passava per le case e sotto i ponti, tra colline e foreste, ignaro dello
scorrere delle stagioni, perpetuo e implacabile nelle sue incombenze. I suoi
accoliti impaludati di nero si raccoglievano in pacata preghiera sui banchi di
pietra dei santuari e conducevano le liturgie funebri durante le tumulazioni
senza preoccuparsi del freddo o dell’arsura.
Mentre i
culti ufficiali si preparava a celebrare l’anno nuovo tramite rituali vecchi di
secoli, molte erano le persone che, pregando l’uno o l’altro dio, si lasciavano
andare a oscure invocazioni o insoliti gesti arcani. Grave era il fardello
dell’ignoranza che appesantiva la maggior parte delle genti e ancor di più
quello della paura che adombrava i cuori: paura di un mondo in gran parte
sconosciuto, paura di un destino misterioso e troppo spesso infausto, paura di
una vita legata in tutti i suoi aspetti al filo sottile della speranza. La
notte, quando il vento gemeva contro le finestre e le ombre ingoiavano il mondo
tra le loro pieghe impenetrabili, molti erano quelli che ricorrevano ad
ancestrali gesti propiziatori per esorcizzare i timori e dar sollievo all’animo
oppresso delle angosce e dagli interrogativi. Al cospetto dei falò in onore di
Fenice, più di un devoto gettava tra le fiamme un piccolo fantoccio di paglia e
tela, secondo un’usanza troppo remota perché potesse trovarsi annotata nella
regola canonica di uno qualsiasi dei culti ufficiali. Curiose composizioni di
ramoscelli e steli di grano campeggiavano sulla soglia delle abitazioni di
campagna, rozzi simulacri patrimonio di culture e credenze annegate nell’oblio
del tempo. Erano solo alcune delle infinite piccole scaramanzie professate da
una civiltà afflitta da mille incertezze sul presente e sul futuro, troppe
perché bastasse una pomposa processione cittadina o la predica compassata di un
chierico per bandirle. Il simbolismo ieratico che impregnava la vita di
ciascuno spesso perdeva i propri connotati definiti e codificati,
nell’impossibilità di spazzare via tutte le ombre che assediavano i passi
dell’esistenza. Si faceva vago e talvolta contorto, facile preda dell’ansia e
dei sentimenti più morbosi. Tra i più arditi e maliziosi c’era persino chi, nel
buio umido di una cantina, nel cuore di un bosco allagato di bruma o nei
recessi del proprio palazzo, salmodiava litanie oscure. Invocavano entità
misteriose, intonavano versi antichi quanto le montagne, retaggio blasfemo e
degenerato sopravvissuto alla mola dei secoli.
L’inverno
rivestiva la terra e le case di una cappa di gelo cristallino. Assopiva il
continente e le città. Ma, sotto la coltre di pioggia e neve, sotto il freddo,
gli animi umani crepitavano di vita e di emozioni, come faville credute spente
sotto le braci..."